La Svezia potrebbe essere la prima tappa di un processo in cui l’Europa ha saputo mettere un freno a una deriva che ci fa paura
La decisa risalita della corona svedese alla riapertura dei mercati dopo il voto di domenica assomiglia a un sospiro di sollievo per uno scampato pericolo, e induce a guardare il bicchiere mezzo pieno che i risultati della consultazione scandinava hanno fornito.
Certo, a osservare quel 17 per cento ottenuto dal partito populista e xenofobo ‘Democratici svedesi’ (mai nome fu meno rispondente alla realtà) non viene da esultare, come una certa preoccupazione viene nell’osservare la cartina europea che alcuni quotidiani hanno pubblicato con in bella evidenza l’avanzata delle forze sovraniste. Però chi si aspettava uno “sfondamento” nazionalista, con una speculare sconfitta delle forze europeiste e in prima fila per i democratici (quelli veri) deve ricacciare indietro le proprie speranze.
Lo stesso Matteo Salvini nei giorni scorsi non aveva nascosto le sue aspettative facendo “gli auguri al partito di Akesson”, evidentemente augurandosi un risultato che portasse i suoi omologhi scandinavi dritti dritti al governo. Così non sarà, almeno pare, perché il 17 per cento non dovrebbe essere sufficiente ai “Ds” per staccare un biglietto di sola andata verso l’esecutivo. Anche se è bene riconoscere che al momento non ci sono certezze su quale sarà la coalizione che prenderà in mano l’esecutivo.
Il test svedese era molto importante per l’universo sovranista e in generale per un’Europa che alla vigilia della decisiva tornata del voto di maggio prossimo si interroga intorno al tema dell’immigrazione. La Svezia è infatti tradizionalmente un modello di integrazione, molto efficiente, di cui gli svedesi sono comprensibilmente orgogliosi e che i socialdemocratici al governo, pur nelle difficoltà di dover coniugare giustizia sociale e sfida migratoria (con i relativi costi) hanno continuato a difendere. La sostanziale tenuta del partito del premier uscente Stefan Lofven ha dimostrato che, anche nel bel mezzo dello tsunami sovranista e populista che sta sconvolgendo il mondo, una coraggiosa gestione di un modello di governo che rifiuta la xenofobia e sceglie di restare all’interno dei valori dell’Unione europea è alla fine premiante.
La gente comprende le difficoltà ma se c’è chiarezza di obiettivi, una buona comunicazione e una coraggiosa visione del futuro non ti abbandona.
Per tutti noi che lavoriamo in Europa e speriamo in un’Europa forte che sappia superare anche le sue stesse debolezze, il voto svedese è insomma un elemento di speranza, come lo fu quello di un anno e mezzo fa in Francia, dove la Giovanna d’Arco dell’antieuropeismo, Marine Le Pen, anche in quel caso sponsorizzata da Matteo Salvini che già la vedeva all’Eliseo, dovette arrestare la sua corsa.
Il voto in Svezia è nello modo anche una sfida, perché ci sprona a comprendere il disagio esistente nell’opinione pubblica occidentale, in buona parte riconducibile al tema immigrazione, obbligandoci a ipotizzare risposte coraggiose e convincenti che tengano insieme solidarietà, rispetto della legge e giustizia sociale, per chi arriva e per chi c’è già.
Le domande che vengono dalla gente non vanno esorcizzate o demonizzate, magari derubricandole sbrigativamente come “paura” ma vanno analizzate e comprese nel loro significato. Allora la Svezia sarà stata solo la prima tappa di un processo in cui l’Europa ha saputo mettere un freno a una deriva che ci fa paura, quella sì, e che non ci porterà da nessuna parte.